VISTO! FEBBRAIO 2025


Periodico di informazione della sezione di Siena – marzo 2025
Direttore responsabile: Andrea Sbardellati
Registrazione Tribunale di Siena n. 6 del 29/10/2020.
Con il contributo di: PAMPALONI SRL, concessionaria Renault a Siena
Sezione Cavaliere Attilio Borelli
Viale Cavour, 134 Siena
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Sito internet: www.uicisiena.org

INCONTRI DI MUSICOTERAPIA, I DUE PROTAGONISTI RACCONTANO

di Federico Martelli e Lucia Pagano

Vi raccontiamo un progetto che ci piace e che ci coinvolge in prima persona. La consigliera Elena
Ferroni ci fa alcune domande e noi rispondiamo con la nostra esperienza.
Chi guida le sedute di musicoterapia? Le sedute sono guidate da Agostino Longo che è un musico
terapeuta che conosciamo da molti anni e viene da noi per questo motivo.
Chi di voi fa per primo l’incontro? La prima a fare la seduta è Lucia: dopo che Agostino ha sistemato
sul tavolo del salone gli strumenti la fa trasferire da una stanza all’altra chiudendo la porta alle sue
spalle Quando Lucia conclude il suo incontro subentra il grande centralinista Federico.
Dove si svolgono queste sessioni di musicoterapia? Questi incontri vengono effettuati il martedì
all’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti ETS-APS presso la sede dell’associazione in viale Cavour, in
una stanza che è alle nostre spalle dove tanti anni fa veniva effettuato anche il Coro Arlecchino e altre
riunioni.
Da quanto tempo praticate lezioni di Musicoterapia?
Sono tanti anni che vengono effettuate queste lezioni, che sono molto divertenti.
Che cosa fate? Durante queste sedute ognuno di noi ha un proprio e determinato spazio, un momento
per sé stesso e in questo momento intimo ognuno fa una determinata e specifica azione. Per esempio
Federico suona il pianoforte e Agostino Longo lo suona insieme a me. Poi quando Federico finisce
la sua composizione, è il turno di Lucia. Lei ed Agostino prima concordano quello che fanno.
Successivamente procedono rispettando il proprio accordo, usando la voce e suonando a turno ed
insieme.
In che orario vengono effettuate queste lezioni? Queste sedute vengono effettuate la mattina dalle
9.30 la prima e dalle 10.15 alle 11.00 la seconda.
Qual è il momento che vi piace di più? Il momento che mi piace di più- dice il mega centralinista
ultra strong Federico- è quando suoniamo liberamente e creiamo ognuno la propria composizione. Le
nostre composizioni sono fatte così: prima suono io e Agostino Longo mi accompagna. Mentre sto
digitando una nota egli canta l’aria! Ve lo faccio capire meglio se anche gli altri lettori che leggeranno
“Visto” non lo capissero immediatamente! Va beh! Questo era soltanto un gossip! Comunque! Vi
dirò ragazzi e ragazze che se Agostino fa:” AAAAAAA! Io faccio:”
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!, un botta e risposta sonoro! Direi! Sonorissimo! “Il miomomento preferito”, dice Lucia è “quando ascoltiamo un brano con il computer portatile del nostro
amico-musicista, con un altoparlante dal sito Internet di Youtube. Agostino prende quello che ci
serve, dopo esserci accordati sullo strumento da cercare apriamo la ricerca digitale. Dopo aver udito
un brano composto soltanto da uno strumento musicale, ci diciamo le nostre impressioni e sovente
grazie a queste ci salutiamo. Dice il centralinista:” A me questi incontri piacciono! Perché facciamo
un sacco di belle cose! “Speriamo che queste lezioni possano procedere, – dicono Federico e Lucia –
Dobbiamo sentire Agostino e l’IRIFOR per sapere quando e se questo sarà possibile.

DIRITTO ALLA VITA E DIRITTO DI AUTODETERMINAZIONE

di Massimo Vita

La nuova legge della Toscana sul fine vita è la prima legge regionale in Italia che regolamenta il
suicidio assistito nel rispetto di quando prescritto dalla Corte costituzionale. Questo significa che in
determinate situazioni, una persona malata terminale può chiedere aiuto al medico per morire in modo
indolore.
Per poter accedere al suicidio assistito, bisogna avere una malattia irreversibile e con sofferenze
fisiche o psicologiche intollerabili. Inoltre, la propria condizione deve essere considerata stabile. La
richiesta deve essere reiterata nel tempo, e ci sono altre condizioni stabilite dalla legge.
Ovviamente, ci sono opinioni molto diverse su questa legge. I sostenitori dicono che è una questione
di libertà e di dignità, e che nessuno dovrebbe essere costretto a soffrire fino alla fine. I critici, invece,
pensano che questa legge metta a rischio la vita umana e che si possa scivolare verso una cultura della
morte.
In ogni caso, la legge sul fine vita in Toscana ha aperto un dibattito molto importante sulla fine della
vita e sul diritto a una morte dignitosa.
Dunque, la legge toscana sul fine vita fa sì che il diritto alla vita e il diritto all’autodeterminazione
entrino in collisione. Da un lato c’è il diritto alla vita, che è un diritto fondamentale riconosciuto dalla
Costituzione. Dall’altro c’è il diritto all’autodeterminazione, che permette a ciascuno di noi di decidere
della propria vita.
Nel caso del fine vita, il diritto all’autodeterminazione entrerebbe in gioco quando la vita di una
persona diventa insopportabile a causa di sofferenze fisiche o psichiche. In questo caso, la persona
potrebbe decidere di porre fine alla propria vita, chiedendo aiuto medico per farlo.
È un argomento molto complesso, che tocca questioni etiche e morali profonde.
Penso che la diatriba sia ingiustificata perchè nulla vieta a chi crede di seguire la sua fede mentre la
legge deve regolamentare il diritto di chi vuole agire diversamente sul proprio corpo nelle occasioni
date.
Penso, inoltre, che molti disquisiscono sul tema senza aver letto la legge e cosa prescrive.
La legge toscana sul fine vita è piuttosto dettagliata. Per prima cosa, stabilisce chi può richiederne
l’applicazione: persone con una patologia irreversibile, con sofferenze fisiche o psicologiche
intollerabili, e in una condizione clinica stabile.
La richiesta deve essere presentata all’azienda sanitaria locale, e deve essere fatta in modo
consapevole e informato. C’è poi una fase di riflessione, durante la quale la persona è seguita da un
consulente. Se la richiesta viene confermata, entra in gioco una commissione medica che valuta la
sussistenza dei requisiti.
La legge definisce anche il ruolo del medico, che può prescrivere i farmaci necessari, ma non può
somministrarli. È la persona stessa a decidere quando e come assumerli.
In conclusione devo dire che la sentenza della corte costituzionale in merito è stata molto equilibrata
e non si capisce come mai il Parlamento Italiano non voglia legiferare in merito.
In pratica, i giudici hanno detto che il divieto di aiutare qualcuno a morire è giusto, ma ci sono delle
eccezioni. Se una persona ha una malattia gravissima, con sofferenze fisiche e psicologiche
insopportabili, e la sua situazione è irreversibile, allora aiutare quella persona a morire non è più un reato.
La sentenza di cui si parla è la 242 del 2019 nella quale la Corte Costituzionale dichiara illegittimo
l’articolo 580 del codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi aiuta un suicidio,
quando ricorrono determinate condizioni.
In conclusione io vorrei dire a chi si oppone a questa normativa di impegnare le proprie forze e la
propria determinazione nelle pattaglie per una sanità più efficiente, per la sanità pubblica e gratuita,
per le cure palliative sempre più disponibili e per abbattere le liste di attesa chilometriche.
Si può aiutare chi soffre in tanti modi ma certamente si devono evitare i giudizi affrettati verso coloro
che decidono diversamente dal nostro pensiero.

INCLUSIONE, LA DIREZIONE È GIUSTA?

di Sara Barabaschi

Ultimamente ho avuto il piacere di leggere spesso notizie positive circa il percorso di nuova consapevolezza
verso l’inclusione, nel senso più ampio; complici anche i social, che contribuiscono a mostrare la vita lontano
dalla ribalta di quelli che diventano così persone “vere” ed escono dallo stereotipo. Penso a molti atleti,
influencer, persone di spettacolo, che – almeno fuori dalle pagine delle riviste – vissuti nel quotidiano smettono
di essere “la figlia di immigrati” piuttosto che “il disabile”, o “lo strano”, “l’effeminato”, perdendo queste
stupide etichette, che mai sono servite a descrivere o contenere in poche sillabe l’insieme così complesso della
natura umana.
Questo mi sembra un gran traguardo, soprattutto per chi, ancora giovanissimo, si può sentire più libero dal
giudizio e quindi di essere sé stesso senza mascherare la propria essenza.
C’è però uno di questi “marchi” che è più duro a morire ed è quello rivolto a chi convive con una disabilità; in
questo caso, di solito ci si trova davanti a due differenti interpretazioni: da un lato l’esaltazione dell’eroe, che
pur combattendo con difficoltà maggiori agli standard, trionfa sulle avversità, dall’altro la compassione per lo
sfortunato che ha comunque diritto a provare anche lui a vivere “normalmente”, togliendosi qualche
soddisfazione.
Ho volutamente marcato queste interpretazioni con un lessico fuori misura, per sottolinearne l’incongruità.
Questa non è inclusione, ma piuttosto il suo opposto. Definire qualcuno speciale significa scinderlo dal
contesto in cui vive, dall’ambiente in cui si muove ed è giusto farlo solamente ad uso delle normative, che
devono tutelare chi è costretto a misurarsi costantemente con ambienti e realtà fatte a misura di un certo
standard di agilità e mobilità elevati, sensi perfettamente funzionanti, capacità di comprensione notevole (cosa
che francamente riguarda un’esigua percentuale di popolazione).
Per fare un esempio, quando un allenatore definisce speciali i ragazzi con disabilità che allena, sicuramente
con i migliori intenti possibili e mosso da affetto sincero, dimostra però quanto ci sia ancora da lavorare
sull’educazione umana, quanto ci sia ignoranza su questi temi.
Per non parlare del settore scolastico, dove il “modello inclusione” è una realtà, ma gestita in maniera
fallimentare. L’educazione affettiva, una proposta da portare nelle scuole che ultimamente è oggetto di
discussioni, deve diventare realtà, estesa anche agli insegnanti, deve entrare a far parte della formazione di
tutti, perché si impari a guardare agli altri, come a noi stessi, senza pregiudizio e si riesca magari ad aprirci
all’ascolto, alla comprensione; così mi auguro si smetta di valutare un individuo solo da quel che presumiamo
ed iniziamo a comprendere che c’è una persona dietro la difficoltà, che magari è più colta di noi, più
intelligente, di maggior successo e non soltanto un “ragazzo speciale”, che ci suscita tenerezza, ma non stima,
semplicemente perché siamo abituati a fermarci alla superficie, senza cercare di conoscere quel che c’è dietro
e prestando poca attenzione a ciò che ha da dire.
Siamo ignoranti e l’ignoranza è una nostra colpa. Facciamo una prova di immedesimazione: proviamo ad
immaginare di essere valutati per una nostra caratteristica e solo per quella, anzi di più, in funzione di quella
di essere scartati a priori da un confronto; ci darebbe enormemente fastidio, magari ci è successo e ci ha dato
molto fastidio. Mi vengono in mente gli stereotipi del passato (?) bionda=svampita o prosperosa=stupida… è
quello che purtroppo succede ancora, in certi ambienti in cui manca di cultura e informazione chi si trova a
lavorare con persone diverse dai propri standard.
Dunque, adoperiamoci per insegnare la riflessione, l’empatia, educhiamo al rispetto reciproco,
anziché alla compassione, che senza conoscenza diventa una sterile scusa per sentirsi migliori
dell’altro. E cominciamo dal cambiare il linguaggio con cui ci esprimiamo.
In questo compito sarebbero di grande utilità, a mio avviso, psicologhe e psicologi che spieghino la
comunicazione. Introduciamo in maniera capillare queste figure negli ambienti non solo scolastici, ma più in generale di aggregazione e di lavoro e avremo messo una prima pietra nella costruzione di una società più
sensata.

“L’ARTE OLTRE LO SGUARDO: RIPENSARE L’ESPERIENZA MUSEALE”

di Enza Pipitone

L’apprezzamento dell’arte nei musei è stato tradizionalmente limitato al solo approccio visivo, statico e
contemplativo, una dimensione univoca attraverso la quale lo spettatore instaurava un dialogo personale con
l’opera affidandosi esclusivamente alla vista. Dipinti, sculture e opere d’arte, descritti in didascalie e pannelli
informativi, si presentavano quindi come oggetti da osservare da cui erano esclusi gli altri canali sensoriali.
Negli anni Novanta, alcune realtà museali, spinte dalla volontà di garantire a tutti l’accesso al patrimonio
culturale e artistico, in un’ottica di inclusione e tutela del diritto alla cultura, hanno sperimentato percorsi tattili
per ipovedenti e non vedenti che hanno portato alla nascita di musei specializzati.
“Il museo tattile Anteros di Bologna – spiega la Professoressa Loretta Secchi, storica dell’arte e curatrice del
museo fondato nel 1999 – nasce come ricerca pionieristica nel contesto della traduzione della pittura finalizzata
a renderla conoscibile alle persone non vedenti. In quel periodo, esistevano già musei che rendevano
accessibile la scultura, come ad esempio il Museo Omero di Ancona, ma noi sentivamo l’esigenza di studiare
la traduzione della pittura per lavorare prevalentemente sui processi cognitivi delle persone non vedenti,
funzionali a mettere insieme due grandi categorie: spazio e tempo. Sono due categorie – prosegue la
Professoressa Secchi – che fondano la costruzione del pensiero visivo nelle persone cieche e dominano la vita
umana. Quindi, tradurre la pittura per le persone non vedenti e ipovedenti, significava anche trovare una
soluzione che rendesse possibile l’apprezzamento delle forme della pittura, dei loro contenuti iconografici e
anche iconologici. Contenuti che partono dall’esame della forma e riconoscono il tema trattato nell’opera
d’arte e comportano successivamente lo studio di tutto ciò che quella forma può rappresentare in termini di
contenuto simbolico”.
Di quali tecniche vi siete avvalsi per raggiungere il risultato auspicato?
“Siamo partiti del bassorilievo prospettico, di origine fiorentina, rinascimentale, e lo abbiamo piegato alle
esigenze tiflodidattiche, ovvero, della didattica per non vedenti. Abbiamo convertito anche modelli didattici
provenienti dalla tradizione anglosassone, per esempio gli studi di iconologia, il metodo tripartito di Erwin
Panofsky, che è un metodo che accompagna il fruitore alla lettura della forma, del contenuto convenzionale, e
di tutto ciò che attiene al contenuto metaforico delle opere d’arte e lo abbiamo convertito in un metodo didattico
per le persone non vedenti”.
“Qual è stato il cammino intrapreso per valutare l’efficacia di questo metodo didattico?
“Abbiamo instaurato rapporti di collaborazione con la cattedra di ottica fisiopatologica dell’Ospedale
“Sant’Orsola” a Bologna per verificare quanto questo metodo potesse realmente funzionare con le persone
cieche congenite, con le persone cieche acquisite, con gli ipovedenti e tutto è partito così”.
L’interesse per il vostro metodo ha dato vita a numerose collaborazioni intraprese con vari enti in Italia,
ma anche in Europa e all’estero.

“Le collaborazioni con la cultura europea ed extraeuropea sono iniziate nel 2000, anno in cui abbiamo
organizzato un convegno internazionale al CNR di Bologna, e poi hanno avuto un seguito nel 2001 soprattutto
per effetto dell’interesse che l’Istituto Nazionale dell’Educazione Speciale del Giappone ha nutrito nei
confronti del nostro metodo. Da lì è partita una collaborazione stabile, tuttora in essere, con alcune delegazioni
di ricercatori giapponesi. Successivamente, le collaborazioni sono andate oltre e hanno interessato importanti
istituti e università canadesi e statunitensi.

Oggi i supporti multimediali e multisensoriali hanno ampliato l’offerta e hanno influenzato la
comprensione e l’apprezzamento delle opere d’arte. Nel vostro museo, sono state introdotte innovazioni
multisensoriali che hanno migliorato l’esperienza percettiva dei visitatori?

“Noi – chiarisce la Professoressa Secchi – non ci avvaliamo di molti supporti multimediali che ci permettono
di comunicare l’opera d’arte in chiave sinestesica con soluzioni finalizzate anche a implementare l’emozione
estetica. Se è vero infatti che gli strumenti multimediali sono in grado di implementare l’esperienza estetica, è
pur vero che per il nostro lavoro, basato fondamentalmente sul ragionamento, sulla strutturazione del pensiero
visivo, è fondamentale la concentrazione. Noi dobbiamo infatti educare la mente e fare un lavoro altamente
cognitivo, duramente cognitivo, sull’abilitazione della tattilità, sul ragionamento intorno alla forma, sulla
restituzione del pensiero visivo nella modellazione. Quindi, perché si crei la competenza percettiva e tattile, in
associazione all’ascolto di una descrizione in sincronia col gesto tattile, è fondamentale che non ci siano
ulteriori sollecitazioni capaci di distogliere l’attenzione del non vedente. Rimane il fatto che si tratta di
esperienze immersive e piacevoli di tutto rispetto che meritano attenzione e di essere coltivate”.
Guardando al futuro pensa che ci sia la possibilità di implementare questa esperienza e renderla più
edonistica?

“Sì, io penso che specialmente nei musei in cui il servizio educativo, per quanto evoluto, non è così
specializzato come nel nostro caso, diventa veramente fondamentale offrire alle persone non vedenti dispositivi
che aiutino all’apprezzamento dell’opera d’arte anche in una chiave di traduzione in suoni ed eventualmente
col supporto di strumenti e sollecitazioni anche olfattive e soprattutto sonore.
Invece, se stiamo sulla esplorazione tattile di un supporto plastico, tattilmente percepibile, cioè in possesso
forme leggibili al tatto, l’alleanza fra la percezione tattile e la descrizione sincrona al gesto tattile diventa
fondamentale. Bisogna creare una sinergia e una corrispondenza, una sincronia fra il gesto tattile che esplora
una forma e l’enunciato che la descrive in modo puntuale e attagliato al significato estetico di quella forma.
C’è, a mio avviso, la possibilità di ampliare in chiave sinestesica il museo e di ampliare la fruizione dell’opera
d’arte in termini sinestesici”.
In che modo questi strumenti innovativi, capaci di creare nuove esperienze, profonde ed inclusive,
possono essere introdotte nella realtà museale senese?

“Mi piacerebbe che i musei senesi e i musei delle contrade, pensando alla potente connotazione che Siena ha
in questo senso, possano aprirsi a un’offerta di questo tipo, possano aprirsi a un’accessibilità intesa proprio
come avvicinamento al significato che le contrade hanno in termini di identità. Siena ha una profondità e una
cultura talmente radicata nell’esistenza della comunità che è di sostanza e non opererebbe mai in maniera
semplicistica, quindi, comprendendone la complessità, affronta in maniera autentica ed essenziale il problema.
Laddove c’è una tradizione di finezza del pensiero e anche di raffinatezza della cultura, spesso c’è anche
concretezza nell’applicazione della cultura stessa”.

K550 E ALTRI RACCONTI DISPONIBILE SUL LIBROPARLATO

di Antonio Garosi

In occasione della presentazione del romanzo “Un Giallo Per Samantha” ho deciso di rendere
disponibile sul Libro Parlato la mia raccolta dal titolo “K550 E ALTRI RACCONTI” ed è disponibile
per il download al seguente link https://www.libroparlatoonline.it/dettagliOpera/98375
Si tratta di una raccolta di racconti gialli, in quello che dà il titolo alla raccolta un insegnante di musica
si trova a collaborare con la polizia per un vecchio maestro di musica trovato morto, in circostanze
sospette, nella sua abitazione. La storia che segue si svolge nei dintorni di Firenze negli anni trenta del novecento.
Nel racconto dedicato al brigadiere Ranieri questo simpatico carabiniere deve dipanare la matassa di
un omicidio avvenuto nei parcheggi di un supermarket.
La Bambola invece è ambientato nell’antica Roma tra gli usi i costumi, le tradizioni e i misteri
dell’urbe.
Nel Tesoro di Nonno Giovanni c’è l’esordio di Samantha Martini, protagonista anche del nuovo
romanzo, in un racconto tutto da scoprire.
Gioco Triplo è una spy story ambientata nelle campagne toscane, per concludere con un mistery di
cui non vi svelo nulla.
Cosa dite? Vi ho incuriosito abbastanza?
Buona Lettura…

IL MONDO DELLA DISABILITÀ: EVOLUZIONE, ATTIVISMO E IL RUOLO DEL GARANTE
MONICA BARBAFIERA

di Enza Pipitone

Il concetto di disabilità si è evoluto nel tempo. In passato era strettamente legato alla valutazione
medica delle menomazioni strutturali o funzionali di un individuo, che conseguentemente aveva una
ridotta capacità d’interazione con l’ambiente sociale, oggi l’attenzione si è spostata sulle tante
difficoltà che derivano dall’incapacità della società di rispondere alle esigenze delle persone con
disabilità fisica o mentale garantendo loro accessibilità e pari opportunità nei vari ambiti.
Se l’apporto della ricerca scientifica, l’attivismo delle persone con disabilità e la cooperazione delle
numerose associazioni di volontariato, impegnate su vari fronti, hanno contribuito alla tutela dei diritti
delle persone con disabilità promuovendo una società più inclusiva e consapevole, una delle conquiste
più significative degli ultimi anni è stata l’istituzione del Garante della disabilità.
Monica Barbafiera, avvocato, esercita questo ruolo in forma totalmente gratuita per il Comune di
Siena dal 2020 con l’obiettivo fungere da tramite fra la cittadinanza e la Pubblica Amministrazione
in merito alle esigenze in ambito di Disabilità, oltre che di monitorare e tutelare i diritti delle persone
con disabilità promuovendone una reale inclusione sociale ed autonomia personale.
“Negli ultimi anni la nostra società è radicalmente cambiata, spiega la garante Barbafiera, siamo
passati da un modello assistenzialista che considerava la disabilità come un problema da “gestire” a
un approccio finalizzato alla tutela dei diritti e alla promozione dell’autonomia e della dignità delle
persone disabili, e tanti sono i risultati ottenuti. Pensiamo, ad esempio, alle riforme per l’inclusione,
come la Legge 104/1992 che in Italia ha garantito il diritto all’inclusione scolastica, lavorativa e
sociale, alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006, ratificata in Italia
nel 2009 e alla legge 112/2016”, per non parlare poi della L.13/1989 in materia di Abbattimento delle
Barriere Architettoniche, vero e proprio pilastro normativo ancora oggi moderna, attuale ed
applicabile pur nell’ottica dell’Universal Design, obiettivo ambito affinché si realizzi quella
inclusione ed autonomia piena per le persone con disabilità”.

In che modo collabora con le altre istituzioni e organizzazioni per garantire il rispetto delle leggi
sulla disabilità?

“Tengo a precisare che ho riscontrato da subito piena collaborazione da parte delle associazioni che
si occupano di disabilità e degli enti coinvolti, e questo rappresenta un punto di partenza
fondamentale, considerato che il mio è un ruolo di raccordo tra la utenza con disabilità o i loro care
giver e l’Amministrazione Comunale, ovvero con gli Uffici Amministrativi con cui condivido
percorsi e obiettivi, oltre alla Consulta della disabilità, l’Osservatorio per l’Abbattimento delle
Barriere Architettoniche con i quali condivido e collaboro perché progetti o segnalazioni vengano
portati a termine o definite”.

Quali sono le principali sfide che affronta come garante della disabilità nel nostro Comune?

“Attualmente le iniziative in essere sono tante, precisa Monica Barbafiera, di forte interesse è anche
il progetto “SienasenzaBarriere” e la relativa app “Senza Barriere”, realizzati in collaborazione con
l’associazione “Lucca senza barriere”, vincitrice di un bando regionale del 2023 in ambito di
applicativi digitali per la disabilità, che vede protagonisti gli studenti degli istituti Bandini, Caselli,
Galilei e Piccolomini, impegnati nella mappatura di edifici per l’aggiornamento delle schede del
P.E.B.A. – “Piano eliminazione barriere architettoniche”. L’applicazione gratuita, spiega la Garante,
consente di valutare il grado di accessibilità dei luoghi mappati che sono: edifici pubblici, esercizi
commerciali, chiese e musei di Contrada”, permettendo così al turista-cittadino che vuole recarsi nella
nostra città di essere consapevole di cosa poter trovare in merito all’accessibilità dei luoghi di visita
per lavoro o per piacere.
Vanno avanti anche il progetto “SienaDI&PER tutti”, finalizzato all’inclusione sociale e al
sostegno dei disabili e delle loro famiglie nella città di Siena, oltre al percorso di co-progettazione
“Si.Sienasociale 2.0”, promosso dall’Amministrazione comunale in collaborazione con Sds e in
sinergia con gli enti del terzo settore.
Di rilievo sotto il profilo turistico è il progetto P.E.S.I. “Percorsi Esperienzali, SuperAbili e
Inclusivi”. Quest’ultimo mira a promuovere e diffondere la cultura dell’accessibilità e a migliorare il
sistema dell’accoglienza turistica nelle città storiche e nei borghi toscani. Il Comune di Siena e
l’associazione “Handy Superabile Odv”, sono uniti in questa iniziativa che prevede la creazione di
un database delle strutture ricettive accessibili, la costruzione di un itinerario turistico inclusivo e la
realizzazione di percorsi virtuali”.

La mappatura della qualità e accessibilità dei servizi offerti è di notevole importanza, ma non è
trascurabile la sensibilizzazione e la formazione del personale addetto all’accoglienza.

“L’analisi dei dati è essenziale, ma non sufficiente. Non possiamo pensare di migliorare il sistema di
ospitalità senza coinvolgere chi, ogni giorno, accoglie, informa e assiste i visitatori. È per questo che
la formazione anche di coloro che ricevono e sono al pubblico deve diventare una priorità. Solo così
possiamo sperare che l’inclusione da semplice obiettivo diventi una vera e propria cultura”.

Quali progetti o iniziative ci sono in programma per migliorare ulteriormente la qualità della
vita delle persone con disabilità?

“Siena è una città per sua vocazione modello di mutuo soccorso e solidarietà, sottolinea Monica
Barbafiera, per questo stiamo lavorando alacremente per renderla sempre più accogliente. Ci sono in
ballo progetti ambiziosi finalizzati a garantire a tutti l’accesso al patrimonio culturale ed artistico
della città. Ci auguriamo di riuscire ad estendere il percorso di visita multisensoriale, che attualmente
riguarda in via sperimentale la Maestà di Simone Martini, ad altre opere dei musei civici, Santa Maria
della Scala e museo dell’Acqua. Già e’ stato possibile applicare il sistema “BlindTag” alle strutture
sportive tipo la piscina dell’Acquacalda destinataria di un adeguammo in ambito di struttura accessibile non solo per le persone con disabilità motoria ma anche per quella non vedente o
ipovedente. Cosi come è stato possibile rendere fruibile per le persone non vedenti l’impianto del
velodromo grazie alla fruibilità di una bicicletta tandem.
Si può pensare anche alla realizzazione di percorsi tattili, descrizioni in Braille e audioguide
dettagliate per non vedenti o ad ambienti con stimoli sensoriali ridotti, mappe visive e spazi di
decompressione per le persone nello spettro autistico”.
L’offerta può essere molteplice, ma sebbene ci sia la consapevolezza da parte di tutti che la strada
verso un’inclusione ed autonomia piena sia lunga e tortuosa, i numerosi progetti in corso che
riguardano l’accessibilità, la lotta ai pregiudizi e il miglioramento dei servizi di sostegno
personalizzato, ci fanno ben sperare.

UN MEMOIR DEL DIVENIRE-CIECO

di Luca Casarotti

C’è quel brano famoso del libro-intervista a David Lipsky in cui David Foster Wallace parla delle
magie che può fare la letteratura:
Ce ne saranno tredici diverse, e non so neanche di quante di queste si può davvero parlare. Ma una
ha a che fare con la sensazione […] di cogliere l’effetto che ha su di noi il mondo circostante in una
maniera in cui al lettore viene da dire: «Allora un’altra sensibilità come la mia esiste».
Per quanto mi riguarda, l’agnizione di cui parla DFW ha un sintomo fisico (o dovrei dire psichico)
abbastanza preciso: una frenesia da eccesso di stimoli ben poco funzionale. Comincio a distrarmi,
devo smettere di leggere. D’impulso, egocentricamente, vorrei prendere la parola e dire la mia non si
sa bene a chi. A scrivere non penso nemmeno: «quando scrivo mi agito / scrivo, e mi agito!», Come
rappava tempo fa quel tale.. Dato che la frenesia da agnizione trova ostruita ogni altra valvola di
sfogo, eccomi lì a girare in tondo davanti al divano, a saltellare sur place e a fare svariati altri
movimenti scoordinati del cui pregio intellettuale non sono certissimo. Carlo Ginzburg ha raccontato
qualcosa di simile, con i documenti del processo al bovaro Menichino al posto del libro che fa scattare
l’agnizione e le sigarette al posto dei moti inconsulti del corpo. Questo al netto della trascurabile
differenza, tra me e lui, che lui è un genio.
Per finirla con i preamboli, faccio una confessione che non mi onora: è raro che mi ritrovi in questo
stato di euforia convulsa leggendo o ascoltando persone non vedenti come me discorrere di cecità.
Non è per mancanza di senso di solidarietà, a cui spero di essere immune; né credo sia per spocchia,
a cui invece so benissimo di non essere immune. Giusto per non dipingermi meglio di come sono.
Perché allora? Qualcosa ho capito leggendo il libro di Luigi Manconi, La scomparsa dei colori
(Garzanti, 2024), nel quale invece mi sono ritrovato eccome: il perché provo a spiegarlo alla fine,
quando mi scuserò inutilmente anche di questa lunga premessa egotica.
Manconi portava gli occhiali fin da ragazzo, ma circa vent’anni fa la condizione della sua vista ha
iniziato ad aggravarsi, a causa di un glaucoma che lo ha condotto progressivamente, lentamente alla
cecità. Nel dialogo con Christian Raimo consegnato al libro Corpo e anima (Minimum Fax, 2016),
poteva ancora permettersi il relativo vanto d’essere, «sotto il profilo clinico», «un ipovedente ai
minimi termini». La scomparsa dei colori è il memoir del suo infine-divenire-cieco:
Lunedì 25 settembre 2023. Da oggi sono totalmente cieco. Probabilmente va fatto risalire alle ore
notturne, quelle del sonno, l’evento che ha determinato il definitivo esaurirsi di ogni residuo di vista:
lo spegnersi di quel barlume che, cocciutamente, ha resistito per anni. […] Pensavo che avrei gridato
per lo sconforto ma non ho emesso il più piccolo lamento. Pensavo che sarei precipitato in una spirale
di depressione, ma il mio umore non ha subito grandi scosse. Pensavo che la mia esistenza quotidiana sarebbe stata scombussolata, ma è cambiato poco o niente.
Se non mi è sfuggito qualcosa, sui canali generalisti il libro non è stato commentato da altri non
vedenti. Nelle tante recensioni, per lo più empatiche e giustamente elogiative, colgo spesso una nota
ribattuta, un’intonazione del lessico, che indugia nel campo semantico del dramma, e più in
particolare del tragico. Per verificare o falsificare questa mia impressione, e anche perché sono molto
belli, si prendano a campione i commenti di Tommaso Di Francesco e di Marino Sinibaldi:
commentatori entrambi accomunati a Manconi da lunga frequentazione e più d’un fatto di militanza.
Non che manchino le buone ragioni dell’opzione semantica, e Manconi stesso si ritrova in qualche
passaggio ad attingere alla stessa riserva di parole: ad esempio quando descrive l’abituarsi della sua
persona al progredire della cecità come «una colluttazione» di cui conosce «in anticipo l’esito», «la
disfatta», ma di cui vorrebbe «controllare almeno un po’ i tempi, differendo la precipitazione e
rinviando la dichiarazione di resa». Avendo però anche cura di precisare, è un po’ questa la cifra del
libro, «che la tragedia c’è, ma non c’è solo quella». Perché perdere la vista è un evento drammatico;
un evento anche prolungato negli anni, per Manconi come per molti altri. E il lessico della tragedia
insegna qualcosa anche a chi, come me, è riluttante a parlare della propria condizione in questi
termini. Nel mio caso c’entra il fatto d’esserci nato, senza la vista, e quindi di non aver mai vissuto
diversamente: mentre la tragedia, dice il Treccani, è (la rappresentazione di) una perdita, di uno
sconvolgimento violento.
Nei commenti al libro s’insiste molto sul racconto del, chiamiamolo, «passaggio di stato»: dal vederci,
al vederci sempre meno, al non vederci più. Penserei dunque che a intrigare chi legge con gli occhi
(o, per dir meglio, chi non deve per forza leggere con le orecchie o con le dita) sia il racconto di
questo trascorrere da una esperienza del mondo nota a una ignota: e se non ignota, quantomeno non
vissuta in prima persona, immediatamente. Forse sta in ciò il potenziale conoscitivo più grande che
si trae da questa lettura, l’insegnamento allo stesso tempo evidente ma difficile da raggiungere senza
la guida di qualcuno, qui lo scrittore, che abbia affrontato la traversata dall’una condizione all’altra.
Beninteso, così facendo i commentatori non tradiscono affatto il libro, che al passaggio di stato dedica
molto spazio. Del resto Manconi, intervistato dalla radio dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli
Ipovedenti), dice di aver voluto comunicare la sua esperienza soprattutto ai vedenti, certo ritenendo
di non dover spiegare ai non vedenti quel che già sanno.
Ma non deve passare inascoltata anche quell’altra parte del libro, importante quanto questa, in cui
l’autore si sforza di scrivere attorno alla condizione della cecità in sé. Più correttamente, attorno al
suo esser-cieco, a prescindere dall’esser-vedente di prima. «cieco», a proposito, è l’aggettivo che
Manconi preferisce all’eufemistico non vedente, per qualificare sé stesso: chi scrive ha la medesima
preferenza. È chiaro, anche questa parte del racconto non può davvero e del tutto fare a meno del
confronto con la condizione precedente, che per lui è la più lungamente vissuta; non può sottrarsi al
paragone tra la realtà partecipata anche con gli occhi e la realtà conosciuta senza. Ma anche chi si
trova nella realtà dei non vedenti senza prima esser transitato da quella dei vedenti farà fatica a non
riconoscersi nella sequela psicologica e materialissima di gioie e drammi, incazzature e successi a cui
il Manconi sempre meno vedente impara a fare il callo.
Tuttavia la comunanza profonda che ho sentito con la scrittura di Manconi non sta in questo, nella
corrispondenza minuta delle avventure e disavventure della quotidianità. Nella congiura d’ogni
spigolo contro l’integrità dei nostri stinchi. Nei momenti della vita domestica mediati dall’assistente
vocale: a casa di Manconi c’è Alexa, come nella mia. Nei bicchieri che si rompono per un movimento
involontariamente fuori misura: lo scrivo appena dopo aver mandato in frantumi una bella tazza
personalizzata che le mie compagne dell’ANPI di Pavia mi hanno regalato quando mi sono trasferito
a vivere da solo. Ovviamente, era piena. Dopotutto, non sono questi accidenti piccoli o buffi che
fanno la vita di un non vedente: non siamo noi i soli ad avere le gambe ammaccate dal contatto
frequente e non desiderato con il bordo del letto, ad avere le orecchie di Amazon in casa, e a buttare per terra le suppellettili con la frustrazione che ne segue. Anche quanto alle precipue res caecorum e
al modo di affrontarle, Manconi e io siamo in vero diversissimi:
retinite severa dalla nascita la mia, cecità sopravvenuta dopo la mezz’età la sua; nativo digitale io,
non refrattario all’informatica lui, ma pigro per sua stessa ammissione quando si è trattato di
addestrarsi all’uso del computer e del telefono con la tecnologia assistiva per i non vedenti, come il
lettore vocale e/o braille dello schermo, che infatti nel libro non viene mai menzionato.
E quindi, di nuovo: perché mi sono ritrovato così tanto in questo libro? Per il combinato disposto di
tre ragioni: una è estetica, l’altra è politica, la terza è, come dire, esistenziale.
Quella estetica è presto detta. Il libro è scritto in uno splendido stile medio. Cioè quello stile, cito
Bice Mortara Garavelli, che è ugualmente lontano «dalla volgarità» e «dai preziosismi di una vuota
affettazione», le cui caratteristiche sono «il nitore» e l’acutezza. Uno stile, quel che più conta,
commisurato al tema e allo scopo, che insegna tanto quanto intrattiene. È vero che il tema è talmente
grande da rischiar di prevaricare l’involucro che lo veicola: ma la riuscita di questo libro è anche una
riuscita dell’espressione letteraria. «Se non avesse già scritto decine di libri direi che è nato un vero
scrittore, a 76 anni», ha scritto con un poco d’enfasi Daria Bignardi.
Anche la ragione politica è presto detta. La scomparsa dei colori è un libro in cui l’autore ha lasciato
ben impressa l’orma del militante di sinistra. La si riconosce in certe apologie della lotta («ho sempre
amato la lotta»; «chiamo lotta il movimento che raccoglie e mobilita energie, che produce
conoscenza, che persegue mete, che esercita intelligenza»). La si riconosce nelle autodiagnosi lucide
dei privilegi che fanno di Manconi un non vedente più fortunato di altri: potersi permettere di non
usare né saper usare il bastone bianco, perché è accompagnato in tutti i suoi spostamenti; avere tre
collaboratrici, Marica Fantauzzi, Chiara Tamburello e Kim Valerie Calingasan Vilale, che sono
coautrici di diversi suoi testi e lo assistono nell’attività di presidenza dell’associazione A buon diritto.
Avendo cognizione precisa della società e delle sue diseguaglianze, Manconi colloca sé stesso nel
posto sì del cieco sopraggiunto, ma del cieco socialmente ben inserito, a cui poteva andare molto
peggio. E soprattutto dà della disabilità visiva una descrizione non individualista né soltanto
corporativa ma sociale, da affrontare con gli strumenti della politica: fa risaltare le discriminazioni
che assoggettano i non vedenti, e mette avanti la consapevolezza che il superamento della condizione
di minorità si gioca certo sul terreno delle rivendicazioni di categoria, ma soprattutto in un programma
politico che persegua l’uguaglianza sostanziale: l’uguaglianza di tutti con tutti, non il beneficio
accordato a qualche penultimo a scapito degli ultimi. Difettandomi l’eleganza classica di Manconi,
non riesco a non intingere nel veleno la penna, e a non dire che sarebbe bene se avessero questa stessa
consapevolezza i presidenti delle associazioni tra non vedenti, quando scelgono la forza politica con
cui candidarsi al parlamento.
Veniamo alla ragione esistenziale, che è anche una richiesta di scuse per il profluvio d’io in queste
righe. Manconi racconta la storia di un intellettuale politicamente impegnato che diventa cieco, e deve
trovare il suo nuovo modus vivendi d’intellettuale cieco politicamente impegnato. Dovrei dire «di
uomo cieco che fa il mestiere d’intellettuale politicamente impegnato», giacché l’intellettuale resta
intellettuale, cieco o vedente. Ma infondo la dizione contratta è più giusta. Perché a Manconi riesce
di dimostrare che la cecità pone una marca di stile sul suo modo d’esprimersi, e di scrivere in
particolare. Non mi nascondo che sono queste le pagine che più mi hanno provocato la frenesia di cui
parlavo all’inizio, riportandomi all’esclamazione di Foster Wallace: « allora una sensibilità come la
mia esiste»! Racconta Manconi di una composizione del testo che è in prima battuta
un’immaginazione mentale («nella mia testa penso – in particolare nelle ore notturne e di primo
mattino – un incipit»; «Perché possa funzionare e introdurre i successivi passaggi del discorso, è
necessario che quell’incipit abbia una forma tale da apparirmi perfetta»). E questa è anzitutto
immaginazione del suono delle parole, o proprio emissione di suono («Talvolta, spaventato dalla
possibilità di scordare tutto, ho dettato quelle parole per telefono o le ho registrate su un piccolo apparecchio»). perché attraverso il suono e la memoria del suono avviene il contatto privilegiato di
chi non vede con la lingua, anche con la lingua scritta. Come dice Manconi: « tecnica e metodo
diventano linguaggio e stile». «Marxianamente». Credo che nasca da qui l’ossessione formale per cui
ho l’assurda pretesa di digitare al primo colpo la frase bell’e rifinita senza prova d’errore. Il che
naturalmente non succede mai, ragion per cui sono sempre prodigo di buonissimi motivi per rinviare
l’appuntamento periodico con un nuovo documento di testo vuoto.
Più o meno legata a questa, c’è un’altra cosa che ho capito leggendo il libro di Manconi (e ascoltando
un podcast di Zerocalcare). È un po’ meschina, ma appunto il rispecchiamento nella letteratura
funziona quando non serve solo a gratificarsi. In un capitolo che s’intitola «punti d’appoggio»,
Manconi spiega di sentirseli mancare, gli appoggi, quando si trova in mezzo alla folla, in un corteo,
a un concerto o a teatro; perciò di sentirsi, in quelle situazioni, « inerme e indifeso, privo di qualunque
tutela e di ogni protezione». «La tentazione che ne deriva non è quella di cercare conforto e sicurezza
nell’abbraccio collettivo, bensì di affondare nella mia singolarità».
Sulle prime ho pensato che io, invece, in mezzo alla gente sto benissimo: alle manifestazioni sono
sempre là davanti, figuriamoci! A teatro e ai concerti neanche parlarne: ci andrei tutti i giorni, se
potessi! Altro che disagio!
Poi ci ho pensato meglio. Sì, è vero che ci sto bene. Ma perché? Quando sono a un concerto, o al
cinema o a teatro, la risposta è indolore: perché penso che siamo tutti lì per la stessa ragione, vale a
dire perché l’attenzione di tutti converge verso la rappresentazione sul palco o sullo schermo, e io
sono un non rilevante uno tra molti. Ma quando sono a un corteo, o peggio ancora quando faccio una
conferenza o una presentazione? Ecco, qui la risposta è meno innocente. In quelle situazioni,
probabilmente, non mi sento a disagio perché so che a un certo punto dovrò parlare. Alle conferenze
e alle presentazioni per ovvi motivi, e ai cortei perché la maggior parte di quelli a cui vado è nella
mia città, dove sono un dirigente dell’ANPI, ed è consuetudine che l’ANPI a quei cortei faccia il suo
intervento. È come se parlare davanti a un pubblico, compito che non mi pesa, per cui so di avere
qualche attitudine e per cui vengo riconosciuto, attenuasse l’apprensione che altrimenti proverei a
trovarmi in una situazione non pienamente controllabile, nella quale ho comunque bisogno di aiuto e
mi sento più sicuro se ci sono presenze amiche. In fin dei conti il meccanismo è fin troppo umano: si
mostra agli altri e a sé stessi il proprio lato migliore, quello su cui più si voglia caratterizzare l’identità,
permettendosi qualche sorvolo su quello più fragile. L’importante è saperlo, e non illudersi che quello
fragile non esista.
Tutto ciò per dire che Manconi ha indicato una via possibile per fare un discorso proficuo attorno alla
disabilità. Proficuo perché non teme di essere idiosincratico. Parte dal vissuto personale, ma non si
esaurisce in esso, né cede alla tentazione di parlare solo ad altri disabili, evitando il contatto con le
incognite del mondo. Ha anzi la sana, marxiana pretesa dell’astrazione. Rifugge l’apologo edificante,
non concede niente al pietismo delle cattive coscienze, ma allo stesso tempo non è cinico e senza
speranze. È così facendo che s’indaga la realtà e si trovano, vorrei sperare, i mezzi e le forze per
cambiarla in meglio. Manconi ha raccontato bene la sua storia. A noi il compito di raccontare bene la
nostra.
Fonte: https://jacobinitalia.it/un-memoir-del-divenire-cieco/
11 febbraio 2025

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